Pronunciare ad alta voce il nome di un oggetto perduto può aiutare a individuarlo più facilmente nell’ambiente circostante
MILANO - Chi parla da solo viene guardato male, si pensa che potrebbe mancargli qualche rotella, eppure questo strambo utilizzo del linguaggio, per fini non comunicativi, sembra avere un preciso ruolo di stimolo per alcune funzioni cognitive. Lo indica una ricerca pubblicata su The quarterly journal of experimental psychology, che ha dimostrato come pronunciare tra sé e sé il nome di un oggetto perduto possa aiutare a individuarlo più facilmente nell’ambiente e quindi a ritrovarlo.
OSSERVAZIONE - La ricerca è stata sviluppata sulla base dell’osservazione fatta nella vita di tutti i giorni di persone che parlottano tra sé mentre si guardano attorno e cercano ad esempio le chiavi perdute: «le chiavi… dove ho messo le chiavi…». Non è solo una richiesta di aiuto a persone che possono essere vicine, è anche un modo per focalizzare la propria attenzione sull’oggetto che si sta cercando. Gary Lupyan e Daniel Swingley, due psicologi americani rispettivamente dell’Università di Wisconsin-Madison e di Filadelfia, hanno dimostrato con una sequenza di esperimenti che si tratta di una strategia vincente.
ESPERIMENTI - In un primo esperimento, ai partecipanti è stata mostrata una serie di immagini di oggetti, poi a un gruppo è stato fatto leggere un annuncio che indicava di trovare uno specifico oggetto, per esempio «cercate la teiera»; l’altro gruppo è stato invece invitato a nominare a voce alta gli oggetti mentre li cercava. Alla fine è emerso chiaramente che gli appartenenti al secondo gruppo trovavano gli oggetti molto più rapidamente tra le immagini presentate. In un secondo esperimento è stata simulata la spesa al supermercato, dove in effetti capita molto frequentemente che si vada alla ricerca di un oggetto senza riuscire a trovarlo, per poi scoprire magari che era proprio lì sullo scaffale, davanti agli occhi. Anche in questo caso, le persone alle quali è stato chiesto di nominare a voce alta l’oggetto sono risultate molto più efficienti nella ricerca.
PROCESSI COGNITIVI - Le parole dette tra sé hanno quindi la capacità di guidare e concentrare l’attenzione, ma anche di stabilizzare un’idea astratta rendendola immediatamente disponibile per la memoria di lavoro. Non c’è da meravigliarsi, se si considera che i neuropsicologi sanno da tempo che chi soffre di disturbi acquisiti del linguaggio si porta dietro spesso anche una ridotta capacità in compiti non verbali. Quindi il linguaggio non deve essere considerato solo uno strumento per comunicare con i propri simili, ma anche un modo per influenzare i propri processi cognitivi. «Questo nostro lavoro è il primo che esamina gli effetti del parlare a se stessi rispetto a un compito visuale relativamente semplice - dicono gli autori della ricerca - e si aggiunge alla letteratura esistente che mostra come il linguaggio abbia una serie di funzioni extracomunicative e, in certe condizioni, possa arrivare a modulare i processi visivi». (Corriere.it)
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