martedì 20 marzo 2012

L'ultimo palco di Ivano Fossati

Il cantautore genovese ritorna a casa dopo un viaggio durato quattro decenni e diciotto dischi, capace di segnare non solo il nostro tempo con canzoni divenute bandiere di un'epoca, ma anche la storia politica di questo Paese: "Non preoccupatevi, da domani potrete finalmente suonare quello che vi pare"


Chi si aspettava lacrime e rimpianti, è rimasto deluso, perché l'ultimo concerto di Ivano Fossati ieri sera al Piccolo di Milano, è stato all'opposto in linea con la carriera quarantennale del cantautore genovese: intenso, poetico e decisamente sobrio, con un'unica concessione al termine delle oltre tre ore di musica quando, da due cannoni ai lati del palco, sono stati sparati in aria coriandoli luminosi.

Sul palco, tra gli applausi e i boati del pubblico, se ne stava in piedi lui, arrivato al termine di questo lungo addio durato cinque mesi con una lucidità e una determinazione davvero feroci al punto di non commuoversi nemmeno davanti all'ovazione di cinque minuti che il teatro gli riserva prima dei bis finali. "Grazie, grazie a tutti. Quello che avete fatto è una cosa davvero eccezionale".

Pochissime parole, una scaletta in linea con il tour e pochi fuori scena tra cui la bella sorpresa della band a metà concerto che, a insaputa di Fossati, attacca The End dei Beatles, dedicandogli una frase manifesto, soprattutto in questo contesto: "E alla fine l'amore che ricevi è uguale a quello che dai". Per capire però l'impatto culturale, oltre che musicale, che Fossati ha avuto sul nostro Paese in questi quarant'anni, ieri sera era sufficiente, più
che ascoltare il concerto, osservare il pubblico, un gruppo di persone eterogeneo e trasversale, che mescolava tre generazioni e nomi differenti e apparentemente lontani come Sergio Cofferati e Noemi, Marco Mengoni e Dori Ghezzi.

Tutti lì, in fila, in piedi, a tributare l'ultimo applauso a uno dei pochi veri autori della canzone italiana, un uomo che solo alla fine, quando ormai la mezzanotte è passata e il concerto è finito, decide di sciogliersi e, imbracciato il flauto, intona Dolce acqua, un pezzo della sua prima band, i Delirium, datato 1971. In mezzo c'è una vita intera, ci sono le ventotto canzoni portate in scaletta, anticipate dalle citazioni del Milione di Marco Polo e le cui parole, non a caso, sconfinano proprio nella biografia di Fossati: "Davanti ai nostri occhi stava comparendo Venezia. Eravamo tornati a casa dopo tanti anni, e la mia barba si era fatta grigia".

Non sarà Venezia, ma Fossati ritorna a casa dopo un viaggio durato quattro decenni e diciotto dischi, capace di segnare non solo il nostro tempo con canzoni divenute bandiere di un'epoca (La mia band suona il rock), ma anche la storia politica di questo Paese grazie a inni come Canzone popolare, che nel 1996 divenne l'inno del trionfo dell'allora Ulivo di Prodi. "Non preoccupatevi, da domani potrete finalmente suonare quello che vi pare" ironizza a un certo punto della serata rivolto alla sua band, prima di concludere il concerto, non casualmente, con le parole di un pezzo del 1993, Buontempo: "Oggi non si sta fermi un momento, oggi non si sta in casa, che è buontempo". Poi si chiude il sipario, mentre qualcuno si asciuga le lacrime, qualcun altro scuote la testa e, dal fondo del teatro, sale solitario un grido: "Ripensaci!". Ma difficilmente accadrà. (La Repubblica)
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